venerdì 26 settembre 2014

La testimoninza di un ragazzo del '99




LA GRANDE GUERRA NEI RICORDI 
DI UN “RAGAZZO DEL ‘99” 


Testimonianze del reduce pacese Sebastiano Capilli (1899-1984), raccolte dal figlio Nino



Arrivo al Fronte

Sono nato a Dicembre del 1899 e quando mi portarono al fronte, sul finire del 1917, la guerra era giunta al massimo della sua intensità.

La tradotta ci lasciò a Ronchi di Monfalcone (oggi Ronchi dei Legionari, a ricordo dei legionari di Gabriele D’Annunzio che da qui partirono il 12 settembre 1919 per l’impresa di Fiume).

Non ricordo la data esatta, ma da quel giorno iniziò la mia marcia verso le montagne del Carso e la mia guerra in trincea insieme a tanti altri “Ragazzi del ‘99”.
 

 Sebastiano Capilli, ritratto con la divisa di carabiniere, 
nella cui Arma si arruolò subito dopo la prima guerra mondiale


Guerra in Trincea

Stavamo lunghi giorni fermi in attesa dell’ordine di attaccare. I rifornimenti  tardavano e, tra mille pensieri, era spesso la fame a diventare il pensiero dominante: quando essa diventava insopportabile qualcuno tirava fuori il braccio dalla trincea e, con le dita tese verso l’alto, ruotava il polso nel gesto di chi vuol dire: “non abbiamo nulla da mangiare”. Qualche volta arrivava una pallottola, ma più spesso arrivavano pacchi di gallette lanciati verso di noi dal nemico austriaco e così si sopravviveva.

Anche noi italiani vedevamo spesso lo stesso gesto spuntare dalle trincee nemiche, segno evidente che anche dalla parte austriaca le cose non stavano meglio. Se ne avevamo, lanciavamo anche noi le nostre gallette verso il nemico.

Eravamo, gli uni e gli altri, perfettamente consapevoli che, quando sarebbe arrivato l’ordine di attaccare, dovevamo venire fuori e impugnando il fucile con la baionetta innestata dovevamo scontrarci e, se necessario, tentare di ucciderci a vicenda. Eravamo lì per questo, noi ed anche gli austriaci, ma nei momenti di tregua tornavamo esseri umani pronti a scambiarci gesti di reciproca solidarietà, senza pensare che la persona alla quale avevamo lanciato le nostre gallette perché si potesse sfamare poteva essere la stessa che, qualche ora dopo, per la crudele legge della guerra, avrebbe potuto ucciderci.



La Guerra e i Civili

I rifornimenti non erano mai regolari e nei giorni di combattimento spesso mancavano del tutto.

Ci ritrovammo una volta stanchi a raccogliere feriti e morti dopo una lunga azione e a soffrire la fame senza nulla da mangiare.

Finalmente arrivarono i rifornimenti: un camion carico di marmitte all’interno delle quali c’era qualcosa che ci venne distribuita come pasta e fagioli.

Svuotammo la prima gavetta e tornammo subito per riempirla una seconda volta ma, allentatosi appena il morso della fame, guardammo meglio il contenuto e ci accorgemmo che la pasta c’era e c’era anche qualche fagiolo, solo che sul brodo caldo galleggiavano tanti vermi bianchi. Presto ci passò l’appetito e si sollevò, sempre più forte, un brontolio di protesta. A un certo punto un ufficiale salì sul camion e urlò dentro un megafono: “Questo è quello che la Patria può offrire in questo momento: se avete abbastanza fame mangiate pure, altrimenti distribuiremo il resto alla popolazione civile che ha più fame di voi”. Qualcuno riprese a mangiare, sia pure con qualche espressione di disgusto, e il brontolio cessò immediatamente, perché tutti capimmo che quell’ufficiale stava dicendo una tremenda verità.



Prima dell’Attacco

Il cibo era sempre scarso, sia perché in guerra non si poteva avere di più, sia anche per la difficoltà nei rifornimenti. A volte però, all’improvviso, esso diventava abbondante e, insieme ad esso, comparivano anche il cordiale (super alcolico) e qualche pezzo di cioccolata. Le prime volte che accadde prendemmo la cosa con entusiasmo e qualcuno finì anche con l’ubriacarsi. Presto capimmo, però, che quell’improvvisa abbondanza serviva a sollevarci il morale in vista del prossimo attacco e tutto divenne meno entusiasmante.



Gli Arditi

Erano scelti tra i più giovani e prestanti. Avevano il compito di avanzare per primi contro il nemico. Si resero protagonisti di tanti gesti eroici e, alla fine della guerra, molti di loro ebbero encomi ed onorificenze e vennero considerati degli eroici patrioti. Spesso mi sono trovato con loro, accanto a loro, e nei loro sguardi potevo leggere il mio stesso stato d’animo, ma non avevano e non avevamo altra scelta: affrontare la morte combattendo contro il nemico o rallentare ed essere colpiti alle spalle da altri soldati italiani, morendo con ignominia.



4 Novembre 1918

È la data dell’armistizio, la fine delle ostilità. Ma la guerra non finì per tutti quel giorno. Nelle tante trincee, disseminate tra le montagne del Carso, la notizia che la guerra era finita in molti casi arrivò parecchi giorni dopo, e fu così anche per noi. Continuammo ad alternare azioni di combattimento con pause in trincea per alcuni giorni ancora. Tutte le morti in guerra sono morti stupide, perché stupida è la guerra, ma quelle morti dopo la firma dell’armistizio, provocate solo dalla difficoltà di comunicazione, sono la ferita più dolorosa da rimarginare.






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