LA GRANDE GUERRA NEI RICORDI
DI UN “RAGAZZO DEL ‘99”
Testimonianze del reduce pacese Sebastiano Capilli (1899-1984), raccolte
dal figlio Nino
Arrivo
al Fronte
Sono nato a Dicembre del 1899 e
quando mi portarono al fronte, sul finire del 1917, la guerra era giunta al
massimo della sua intensità.
La tradotta ci lasciò a Ronchi di
Monfalcone (oggi Ronchi dei Legionari, a ricordo dei legionari di Gabriele D’Annunzio
che da qui partirono il 12
settembre 1919 per l’impresa di Fiume).
Non ricordo la data esatta, ma da
quel giorno iniziò la mia marcia verso le montagne del Carso e la mia guerra in
trincea insieme a tanti altri “Ragazzi del ‘99”.
Sebastiano Capilli,
ritratto con la divisa di carabiniere,
nella cui Arma si arruolò subito dopo la
prima guerra mondiale
Guerra
in Trincea
Stavamo lunghi giorni fermi in
attesa dell’ordine di attaccare. I rifornimenti tardavano e, tra mille pensieri, era spesso la
fame a diventare il pensiero dominante: quando essa diventava insopportabile
qualcuno tirava fuori il braccio dalla trincea e, con le dita tese verso
l’alto, ruotava il polso nel gesto di chi vuol dire: “non abbiamo nulla da
mangiare”. Qualche volta arrivava una pallottola, ma più spesso arrivavano
pacchi di gallette lanciati verso di noi dal nemico austriaco e così si
sopravviveva.
Anche noi italiani vedevamo
spesso lo stesso gesto spuntare dalle trincee nemiche, segno evidente che anche
dalla parte austriaca le cose non stavano meglio. Se ne avevamo, lanciavamo anche
noi le nostre gallette verso il nemico.
Eravamo, gli uni e gli altri,
perfettamente consapevoli che, quando sarebbe arrivato l’ordine di attaccare,
dovevamo venire fuori e impugnando il fucile con la baionetta innestata
dovevamo scontrarci e, se necessario, tentare di ucciderci a vicenda. Eravamo lì
per questo, noi ed anche gli austriaci, ma nei momenti di tregua tornavamo
esseri umani pronti a scambiarci gesti di reciproca solidarietà, senza pensare
che la persona alla quale avevamo lanciato le nostre gallette perché si potesse
sfamare poteva essere la stessa che, qualche ora dopo, per la crudele legge
della guerra, avrebbe potuto ucciderci.
La Guerra e i
Civili
I rifornimenti non erano mai
regolari e nei giorni di combattimento spesso mancavano del tutto.
Ci ritrovammo una volta stanchi a
raccogliere feriti e morti dopo una lunga azione e a soffrire la fame senza
nulla da mangiare.
Finalmente arrivarono i
rifornimenti: un camion carico di marmitte all’interno delle quali c’era
qualcosa che ci venne distribuita come pasta e fagioli.
Svuotammo la prima gavetta e
tornammo subito per riempirla una seconda volta ma, allentatosi appena il morso
della fame, guardammo meglio il contenuto e ci accorgemmo che la pasta c’era e
c’era anche qualche fagiolo, solo che sul brodo caldo galleggiavano tanti vermi
bianchi. Presto ci passò l’appetito e si sollevò, sempre più forte, un
brontolio di protesta. A un certo punto un ufficiale salì sul camion e urlò
dentro un megafono: “Questo è quello che la
Patria può offrire in questo momento: se avete abbastanza
fame mangiate pure, altrimenti distribuiremo il resto alla popolazione civile
che ha più fame di voi”. Qualcuno riprese a mangiare, sia pure con qualche
espressione di disgusto, e il brontolio cessò immediatamente, perché tutti
capimmo che quell’ufficiale stava dicendo una tremenda verità.
Prima dell’Attacco
Il cibo era sempre scarso, sia
perché in guerra non si poteva avere di più, sia anche per la difficoltà nei
rifornimenti. A volte però, all’improvviso, esso diventava abbondante e,
insieme ad esso, comparivano anche il cordiale (super alcolico) e qualche pezzo
di cioccolata. Le prime volte che accadde prendemmo la cosa con entusiasmo e
qualcuno finì anche con l’ubriacarsi. Presto capimmo, però, che
quell’improvvisa abbondanza serviva a sollevarci il morale in vista del
prossimo attacco e tutto divenne meno entusiasmante.
Gli Arditi
Erano scelti tra i più giovani e
prestanti. Avevano il compito di avanzare per primi contro il nemico. Si resero
protagonisti di tanti gesti eroici e, alla fine della guerra, molti di loro
ebbero encomi ed onorificenze e vennero considerati degli eroici patrioti.
Spesso mi sono trovato con loro, accanto a loro, e nei loro sguardi potevo
leggere il mio stesso stato d’animo, ma non avevano e non avevamo altra scelta:
affrontare la morte combattendo contro il nemico o rallentare ed essere colpiti
alle spalle da altri soldati italiani, morendo con ignominia.
4 Novembre 1918
È la data dell’armistizio, la
fine delle ostilità. Ma la guerra non finì per tutti quel giorno. Nelle tante
trincee, disseminate tra le montagne del Carso, la notizia che la guerra era
finita in molti casi arrivò parecchi giorni dopo, e fu così anche per noi.
Continuammo ad alternare azioni di combattimento con pause in trincea per
alcuni giorni ancora. Tutte le morti in guerra sono morti stupide, perché
stupida è la guerra, ma quelle morti dopo la firma dell’armistizio, provocate
solo dalla difficoltà di comunicazione, sono la ferita più dolorosa da
rimarginare.
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